La buona scuola e il preside “confederale”

Franco Buccino
Gli si apriva il cuore alla speranza al vecchio preside lo scorso anno a sentir parlare di buona scuola; a sentir mettere assieme stabilizzazione dei precari, autonomia e organico dell’autonomia; staff, merito e valutazione; incarichi a tempo per tutti, senza il carosello annuale di spostamenti di ogni tipo. Era ormai rassegnato a lasciare, per limiti d’età, la scuola così come l’aveva trovata tanti anni fa, quando aveva cominciato a fare l’insegnante. E invece ecco irrompere la notizia della buona scuola. Era contento innanzitutto per gli alunni e le loro famiglie: finiva l’epoca della rigidità delle materie, degli orari, delle lezioni frontali, dei promossi o bocciati, della dispersione di cui la scuola ė tante volte la prima causa. E poi era contento per la stabilizzazione dei precari. Era ed ė pronto a testimoniare che il contributo più significativo alla gestione della scuola, all’innovazione, alla trasformazione culturale, al clima e all’entusiasmo che serve con i ragazzi, è venuto sempre e soprattutto dal mondo dei precari.
Ma soprattutto gioiva all’idea di ritrovare il senso e il significato del suo ruolo di dirigente scolastico. Anche se lui è rimasto legato al termine “preside”, magari seguito dall’aggettivo “confederale”, per motivi non certo romantici e ideologici. Il preside dirige una istituzione in cui si attuano due diritti garantiti dalla costituzione: la libertà d’insegnamento e il diritto all’istruzione. Il suo impegno è di far esercitare sia ai docenti che agli alunni e famiglie il loro diritto. L’istituzione che dirige non è un’articolazione del Ministero, è una realtà autonoma che si interfaccia con Amministrazione scolastica, governi territoriali, ente locale, comunità locale. Il dirigente scolastico, oltre a tutte le caratteristiche generali del dirigente, ha la specificità di provenire dalla docenza e di incardinarsi nella scuola autonoma. In questi pochi concetti c’è gran parte del suo percorso professionale e politico, da preside a dirigente scolastico. Ma anche una parte importante della storia recente dell’istruzione nel nostro paese.
Bisogna anche dire che le cose hanno preso negli ultimi dieci, quindici anni una piega molto diversa rispetto alle attese. L’autonomia non è decollata, la valutazione (di sistema, di scuola, di figure) è rimasta al palo, tagli di posti e di risorse hanno fatto il resto. Il dirigente scolastico è diventato una figura ibrida e ambigua: in termini economici non ha avuto l’equiparazione agli altri dirigenti, ma ha cominciato a prendere uno stipendio che è sembrato interessante ai tanti docenti senza altri sbocchi di carriera; l’Amministrazione non gli ha riconosciuto l’autonomia del dirigente, ma in compenso non gli ha applicato gli istituti contrattuali della dirigenza (incarico a termine, stipendio commisurato alla funzione e al risultato), lasciandolo spesso a coltivare per una vita la sua piccola scuola; gli è stata riconosciuta la titolarità delle contrattazioni d’istituto, ma ormai non rimane da decidere neanche il vecchio straordinario del personale Ata. Insomma, un preside adeguato al livello della scuola pubblica del nostro paese e alla considerazione in cui essa è tenuta.
Bersaglio e parafulmini di molti guai. In nome dell’autonomia della singola istituzione scolastica, l’Amministrazione scarica su di lui tutti i problemi che non sa o non vuole affrontare; le componenti della scuola se la prendono con lui per tutti i disservizi, omissioni, incidenti, abusi, che proliferano negli edifici scolastici; per i sindacati di categoria è spesso il responsabile perfino degli errori delle politiche scolastiche: continuano a vederlo come la figura più prossima dell’Amministrazione. Eppure il preside aveva recuperato un suo spazio nei sindacati, soprattutto in quelli confederali. Non gli è bastato, dopo essere stato malvisto e poi sopportato, essere infine accettato come risorsa per la scuola dell’autonomia; così come non gli è bastato che qualcuno più illuminato abbia riconosciuto alla sua figura perfino una grande valenza confederale, che è equilibrio tra interessi particolari e interesse generale, che è rispetto per i diritti e la costituzione, che è esercizio della cittadinanza attiva per il cambiamento.
All’annuncio della buona scuola di Renzi, gli era sembrato davvero la volta buona e, con incoscienza e generosità, si era lanciato nel discorso riformatore. Era ed è convinto che autonomia significa dar conto del proprio operato, dei risultati ottenuti, la scuola e il suo dirigente. Solo in questa logica figure, ruoli e funzioni si sottraggono all’inveterato verticismo e autoritarismo, ai meri criteri economicistici e amministrativi, alla vuota e autoreferenziale meritocrazia, e si consegnano alla scuola democratica, come la definisce e la vuole la nostra Costituzione. E solo in questa logica era pronto a svolgere un ruolo e ad assumersi personali responsabilità in settori delicati come la valutazione degli insegnanti o la ricerca di docenti adeguati al piano dell’offerta formativa d’istituto o l’introduzione di uno stipendio di risultato anche per loro.
Ed è caduto nel tranello che l’Amministrazione, anzi il governo, scientemente, gli ha teso. È diventato in breve tempo, nel dibattito sul ddl, una sorta di custode, sceriffo, interprete del pensiero e del decisionismo renziano: lui da solo chiama direttamente i docenti, li valuta e da soldi ai meritevoli. Non se l’è mai sognato e mai accetterebbe di farlo. Eppure subito i sindacati hanno parlato, senza neppure interpellarlo, di deriva autoritaria, arrivando a confondere le esagerazioni renziane con le normali e necessarie responsabilità della dirigenza. Per una cinica scelta del governo è stato criminalizzato, è diventato la vittima sacrificale delle relazioni con i sindacati e con le minoranze interne. E sembra che oggi il destino della buona scuola sia legato al ridimensionamento dei suoi poteri. Comunque andrà a finire la vicenda della buona scuola, quest’anno o il prossimo, di sicuro avremo un preside meno “confederale”.

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