IL TRIONFO DELL’IPOCRISIA

Franco Buccino

Ora che si sono abbassati i riflettori sull’istituto di S. Maria a Vico, è il momento di dire alcune amare verità e di fare qualche riflessione. Sulla scuola in generale, naturalmente. Perché per la cronaca si è chiuso solo il primo capitolo della vicenda dello studente che ha ferito al volto con un coltello la professoressa di Italiano. Lui in carcere, “allontanato dalla comunità scolastica fino al termine delle lezioni ed escluso dallo scrutinio finale”, la professoressa dall’ospedale agli incontri ufficiali nei palazzi romani, gli studenti a manifestare in marcia silenziosa “contro ogni violenza”. Solo il primo capitolo, ma quello con la maggior carica mediatica. Hanno tirato un sospiro di sollievo l’insegnante e la sua famiglia, assediati dai media pronti a leggere nelle parole e negli sguardi vendetta o perdono; la famiglia di Rosario, preoccupata insieme per il destino del ragazzo e per la propria reputazione; la scuola di S. Maria a Vico, alle prese con le nuove iscrizioni, dopo il processo lampo. E il fatto che lo studente sia stato “condannato” non conta più di quanto sarebbe contato l’essere “assolto”, o meglio, perdonato.

Il gesto è stato criminale, e tale resterà: qualunque altro elemento dovesse uscir fuori c’è il responsabile e la vittima. Quel che risulta inaccettabile è l’uso strumentale dell’episodio e delle persone coinvolte, e l’ipocrisia versata a piene mani su di essi. A cominciare dalla professoressa, la vittima. In una rappresentazione grottesca della buona scuola, da vittima a insegnante brava e buona, degna degli elogi del Ministro della Pubblica Istruzione e del Presidente del Consiglio. Lei, sì, preoccupata per Rosario. Ma la scuola si preoccupa dei suoi alunni? Anche di quelli che frequentano gli istituti professionali, dove c’è il più alto numero di bocciati, una strage nei bienni, avamposti della dispersione scolastica? Sul sito dell’Istituto di S. Maria a Vico si dice senza mezzi termini che chi può dirotta i figli verso “le scuole umanistiche di Maddaloni”. Non mi sembra che la nostra scuola sia pietosa verso i suoi alunni più fragili, quelli che si presentano dalle medie alle superiori, licenziati con un “sufficiente”.

E, soprattutto, non mi pare che faccia quello che ci si aspetterebbe da una buona scuola: accompagnare i ragazzi in un percorso nel quale acquisire, metodi, competenze e conoscenze, e valori morali, civici e sociali. Invece spesso regna sovrana l’interrogazione, anche nell’ultima versione di interrogazione scritta. Spesso una scorciatoia pericolosa del sistema di valutazione che dovrebbe accompagnare tutto il percorso scolastico dell’alunno e della classe. Questo sì che dovrebbe essere documentato; mentre tante volte lezione e interrogazione, perfettamente complementari, esauriscono tutta l’attività didattica. Certo, per tutte le difficoltà che le scuole vivono.

La mancanza di spazi, laboratori e palestre; un’organizzazione troppo rigida dell’attività scolastica; formazione e aggiornamento del personale spesso trascurati; una divisione fra istituti, indirizzi, perfino corsi e sezioni, che ancora riproduce fedelmente le divisioni esistenti nella nostra società. E qualcuno si straccia le vesti per come qualche scuola cerca di arraffarsi un po’ di studenti, promettendo che tra loro non ci sono immigrati e disabili. La scuola deve pretendere risorse e attenzione, ma insieme deve trovare il coraggio di mettersi contro i falsi valori dilaganti in questa società, deve trovare la forza di essere agente di cambiamento. Questo è il suo compito, la sua missione.

La più grande risorsa della scuola sono gli studenti, così come della società sono i ragazzi, i giovani. L’aumento di episodi di delinquenza minorile e giovanile, le baby gang che imperversano, sono un fenomeno sociale pericoloso e preoccupante, che va combattuto e vinto. I colpevoli di reati vanno puniti senza esitazioni. Ma guai a cadere nel tragico equivoco che, condannando loro, automaticamente assolviamo noi.

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