Repubblica ed. Napoli, 2/11/2020
Franco Buccino
Un caro amico mi ha detto in modo ruvido: “Ti sei sbattuto per tutta l’estate, e oltre, perché le scuole rimanessero aperte, perché gli insegnanti scoprissero il lato eroico e volontario della loro professione. E ora che stanno per chiuderle, non dici niente”. Ha ragione: è troppo facile non parlare.
Il fatto è che in un paio di settimane la situazione “contagio” è sfuggita di mano a tutti. È ormai certo che, come quotidianamente ci vengono sfornati numeri impressionanti, così ci vengono nascosti molti tasselli che danno al puzzle “Paese contagiato” un’immagine ben più terrificante. Siamo alla mercé di un virus che, in attesa del vaccino, si prende beffe della scienza, della medicina e del sistema sanitario del tutto inadeguato. Siamo alla mercé di un nemico che sembra conoscere bene la fragilità dei trasporti, l’inveterata abitudine alle movide e agli assembramenti. Alla mercé di un virus che ha dalla sua la malavita organizzata e la litigiosità inconcludente della classe politica.
E difatti stupisce che si possano creare partiti del sì e partiti del no sulle scuole da chiudere, ma anche su un lockdown declinato nelle varie forme possibili: nazionale, regionale, locale; generale o per singole attività. E che, nello schierarsi su determinate posizioni, ci siano non solo idee e convinzioni sul contagio e sulle sue possibili devastazioni, ma pure cinici interessi politici che guardano, senza neanche nasconderlo troppo, alle elezioni nelle grandi città e alla sopravvivenza stessa del governo.
Se continua così, le scuole chiuderanno. Che dubbio c’è. Chiuderanno come tutto il resto. Si prefigura uno scenario di pandemia diffusa nel quale se le scuole rimanessero aperte, milioni di studenti dovrebbero raggiungerle e poi lasciarle per tornare a casa. A non mandarli a scuola sarebbero quelle stesse mamme, con quanti di noi le abbiamo sostenute, che hanno portato gli zaini dei loro figli davanti agli edifici scolastici, rivendicando il diritto all’istruzione in presenza.
Il diritto alla manifestazione e alla protesta è sacrosanto. Ma oggi è come se, mentre abbiamo riempito piazza Plebiscito, o San Giovanni, o il Circo Massimo, un evento inatteso, un terremoto, un maremoto, una strage, una terza guerra mondiale, ci costringesse non solo a disperderci, ma a rimettere in discussione le certezze che avevamo e che erano alla base della protesta. Non siamo noi a cambiare idea, cambiano tutte le carte in tavolo.
E allora ci sta che le scuole che dovevano rimanere aperte, si chiudano per i giorni necessari. Con una regia accorta e nazionale. Il ministro Azzolina, al posto di parlare in libertà, si preparasse a questo ruolo.
Io non credo di aver perso tempo, insieme a tanti, nel rivendicare il diritto all’istruzione per i nostri ragazzi. E soprattutto nell’aver messo in evidenza i danni che derivano da un’interruzione formativa, ancor più se ripetuta.
Come quando in ospedale per una persona vittima di uno spaventoso incidente, si decide un intervento cruento, pericoloso e necessario; ma per il dopo già è definito un lungo periodo di riabilitazione e di recupero. Senza il quale l’intervento salva la vita, ma non evita conseguenze drammatiche e invalidanti. Così proviamo da subito a ridurre i danni per i nostri alunni. Innanzi tutto con una diffusa e organizzata didattica a distanza, fornendo gli strumenti a tutti e preparando seriamente gli insegnanti. Provare, a distanza non solo la didattica, ma anche socializzazione, piccoli gruppi, tempo libero, hobby e vita associativa.
Cominciare, a distanza, ai tempi del coronavirus, una scuola nuova da continuare, speriamo presto, in presenza.
Io su un progetto del genere ci metterei a disposizione, con decisione unanime, i soldi del Mes, considerando la pari rilevanza di sanità e istruzione per la sopravvivenza e la rinascita del nostro paese.