Franco Buccino
(da Repubblica ed. Napoli del 23 marzo 2013)
Da cinque e più anni la profonda crisi economica sta cambiando azioni, comportamenti, scelte, pensieri e sogni delle persone; sta modificando la composizione delle classi sociali; sta variando perfino il paesaggio, e i tempi e le abitudini delle città. La crisi di questi anni sta allargando ulteriormente la forbice tra i sud e il resto dell’Italia. Perché a Napoli e nel mezzogiorno la crisi è più forte che nelle altre parti del paese, è nata prima e finirà dopo, nel senso che produce effetti disastrosi da più tempo e li continuerà presumibilmente più a lungo. È il nuovo capitolo della questione meridionale, che riprende in termini moderni e attuali una storia antica.
Prendiamo la Campania. Fin dall’inizio della crisi, tutti gli indici negativi di cui abbiamo il triste primato, si sono impennati, a cominciare dalla disoccupazione giovanile. Ma sono stati presi in considerazione solo quando hanno assunto rilievo nelle altre parti del paese. Nel momento in cui finirà o almeno si ridurrà la crisi, altre regioni, grazie al tessuto economico, produttivo e sociale, recupereranno sui vari fronti, noi presumibilmente rimarremo in una situazione fortemente critica, più critica di quella che c’era all’inizio. Sarà una fatalità, o una scelta politica dei nostri governanti?
La questione meridionale, o come la vogliamo chiamare, non può essere un capitolo, sia pure ricco e articolato, di un programma o di un documento nazionale. Qualunque via si troverà per far uscire l’Italia dalla crisi, essa, senza scelte consapevoli e onerose, rischierà di lasciare definitivamente indietro il mezzogiorno. Antica vocazione al vittimismo, si dirà. Sarà pure così, ma la posta in gioco è troppo grande, e non mancano segnali che fanno preoccupare. Si torna a dire che il sud è un peso per il paese, frena lo sviluppo, è improduttivo, ha troppa malavita, e soprattutto ha una classe politica corrotta e inadeguata. Si torna a dire, con una buona dose di ipocrisia, che devono essere i meridionali i protagonisti del loro riscatto, gli artefici del cambiamento. C’è chi di recente ha ripetuto tali affermazioni a una platea di quadri meridionali del Terzo Settore in formazione, una platea di persone preparate, motivate e pulite, lasciandole sbigottite, facendole perfino sentire colpevoli delle difficoltà in cui si dibatte il mondo del volontariato nei nostri territori.
È venuto il momento di cambiar musica. Occorre dire, per esempio, che il nuovo stato sociale da costruire sulle macerie fumanti del precedente, deve essere più forte e più equilibrato. Che prestazioni minime e diritti essenziali devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Come il reddito minimo di inserimento e la revisione delle pensioni al minimo. Non ci può essere una città con l’80% di classi a tempo pieno e un’altra con il 2%. La regione che accoglie un malato proveniente da un altro territorio, lo fa per solidarietà, ma non può pretendere il rimborso delle spese dalla regione di provenienza della persona. La coesione territoriale non si può perseguire solo con i fondi europei, finché ci sono.
Anche nel Terzo Settore occorre cambiar musica. Quando torna qualche socio delle nostre associazioni di volontariato dal centronord racconta cose mirabili che fanno le associazioni “consorelle” di quei territori: in una piccola provincia un parco macchine per il trasporto assistito di decine e decine di mezzi, mentre nella nostra regione ne abbiamo magari due in tutto; centinaia e centinaia di convenzioni con comuni, province e regioni: da noi le convenzioni si contano sulle dita di una mano. Quante volte le persone telefonano alle nostre associazioni e richiedono prestazioni (che esse non sono assolutamente in grado di fornire) perché l’hanno sentito per televisione, “nella pubblicità per il cinque per mille”. Perché non si stabilisce la regola che un’associazione di livello nazionale deve presentarsi al paese solo con quel tipo di attività e di prestazioni che riesce ad offrire su tutto il territorio nazionale? Forse ci sarebbe qualche remora a fare grandi passi in avanti alcune, lasciando indietro le altre. Forse aumenterebbe la solidarietà tra tutte le affiliate di una stessa associazione, e si smetterebbe di essere considerati di serie A o di serie B perfino all’interno del mondo dell’associazionismo.
In conclusione, come a livello internazionale ci si è ormai convinti che non si esce dalla crisi se non coniugando rigore e sviluppo, anzi allentando il rigore e favorendo lo sviluppo, così, considerando la crisi di questi anni in Italia e i suoi effetti devastanti, per uscire veramente da essa bisogna progettare uno sviluppo più armonico ed equilibrato del nostro paese, sia per quanto riguarda le classi sociali, sia per quanto riguarda le aree geografiche.