Franco Buccino
Come da calendario sono partite all’inizio di aprile, e continueranno nel mese di maggio, le prove Invalsi nelle scuole di ogni ordine e grado. In questi giorni si sono svolte quelle per i ragazzi di terza media: a Napoli e in Campania circa 50 mila alunni. E sono ritornate puntualmente, a cominciare dalle medie, le polemiche tra chi ritiene le prove inutili e dannose e chi invece le ritiene adeguate e in linea con gli standard di valutazione esistenti nei paesi più evoluti. Tra i primi ci sono soprattutto docenti e genitori, i quali lamentano l’approssimazione con la quale sono state organizzate le prove: “computer based” cioè le prove sul pc, mentre i computer nelle scuole sono meno della metà degli alunni interessati, spesso obsoleti, con non di rado serie difficoltà di connessione a Internet; la distribuzione delle prove su una ventina di giorni e non più in contemporanea, creando qualche prevedibile problema sull’equivalenza di test diversi; l’aggiunta della prova di inglese con relativo attestato di conoscenza della lingua con l’indicazione del livello. Tutte obiezioni ritenute pretestuose da parte di quelli che sostengono la validità e la necessità dell’operazione e che rinfacciano ai contrari paure inespresse, come quella, per i docenti, di vedersi messi in discussione dai risultati, o quella, per i genitori, di vedersi valutare il figlio in modo ritenuto subdolo e quindi punitivo.
La verità, al solito, è molto più complessa, e riguarda non solo e non tanto le modalità con cui vengono messe in piedi e realizzate le prove, prove affidate all’Istituto Nazionale di Valutazione e che nessuno si sognerebbe di annullare o eliminare, quanto la cultura della valutazione ancora imperante nel nostro paese. Di sicuro, in modo trasversale, nelle stanze del Ministero e nelle aule scolastiche. Una cultura che si è sviluppata intorno ai concetti di merito e selezione, un po’ da accademia militare, promozione e bocciatura, procedure formali e rilievi oggettivi che spesso prevaricano su aspetti sostanziali e storie individuali. Non a caso il Ministero con sua “nota” si è preoccupato degli alunni in ospedale o con altri impedimenti; ha tolto, con qualche suo disappunto, i test Invalsi dagli esami, test che sono diventati comunque requisito per l’ammissione all’esame di licenza media; li ha collocati in un periodo dell’anno scolastico da tutti considerato il più produttivo; ha orientato di fatto le scuole a considerare la valutazione delle prove Invalsi alla stregua di classificazioni e giudizi che discendono da interrogazioni e compiti in classe. Per la soddisfazione di ancora tanti insegnanti che senza questi strumenti, senza queste frecce al loro arco, si sentirebbero perduti e disorientati. “Una vera e propria ossessione quantitativa e classificatoria” l’ha definita qualcuno.
Oltre il fatto culturale, sul modo d’intendere la valutazione, entra in gioco prepotentemente anche una questione didattica di fondo relativa all’apprendimento. Cosa bisogna privilegiare: nozioni e conoscenze, o abilità e competenze? La valutazione si adegua alla scelta didattica, ne è parte integrante. Molti ragazzi abituati ad essere interrogati, sollecitati, valutati sulle conoscenze acquisite, come avviene per interrogazioni, compiti ed esami, si ritrovano all’improvviso nelle prove Invalsi a vedersi somministrare test, per risolvere i quali valgono, più delle conoscenze, le capacità logiche. Ad esse, in genere, si dedica troppo poco spazio nell’attività didattica, a tutto vantaggio delle conoscenze, delle “materie”, delle “discipline”, delle “nozioni” si dice con un termine che è diventato una brutta parola. E così alla fine possiamo trovarci con due valutazioni notevolmente diverse, il che disorienta tutti: insegnanti, genitori, e soprattutto gli alunni.
Appare chiaro quindi che il problema non è essere d’accordo o meno con le prove Invalsi; ma, al netto dei limiti organizzativi e di gestione, il problema è quale tipo di valutazione richiedono i test, e, in ultima analisi, a quale didattica fanno riferimento. Materia più che sufficiente per giustificare contrapposizioni tra Ministero e scuole autonome, tra le scuole con i più diversi progetti educativi, perfino tra i docenti di una stessa scuola e una stessa classe, banalmente divisi tra indulgenti e severi.