Franco Buccino
(Repubblica ed. Napoli, 16 gennaio 2020)
Reduci del Sessantotto, entrammo spavaldi nella scuola, giovani insegnanti, all’inizio degli anni settanta, con l’idea di abbattere ogni forma di meritocrazia. L’applicammo, per la verità, più a noi che agli alunni. D’altra parte tra note di qualifica (la preside Clementina a chi era al primo anno d’insegnamento non dava “ottimo”, per principio) e i concorsi per merito distinto (destinati a chi aveva una certa anzianità; a noi sembravano così lontani) era facile professarsi sostenitori dell’egualitarismo. Ci fu chiaro, però, fin dall’inizio che c’erano due categorie di docenti: quelli come noi, sempre presenti e disponibili, e quelli che nemmeno finivano le ore di lezione e scappavano via. Quest’idea di riconoscere il tempo che si spende a scuola andrà avanti fino ai giorni nostri: si è parlato per anni di tempo potenziato per i docenti, orario aggiuntivo, disponibilità a fare le supplenze, soprattutto nelle prime ore, ecc. Il fondo d’istituto serviva e serve in parte anche per questo. Un po’ ci siamo raffreddati perché quelli che si candidano a fare cose in più non sempre sono le persone giuste.
E poi perché, dopo un po’ di tempo, forse per via dell’esperienza e della pratica didattica, abbiamo cominciato a pensare in modo diverso a questo nostro lavoro, ad alcuni caratteri distintivi, a una dimensione più professionale. All’aggiornamento serio e costante, ai risultati dei nostri alunni, i disabili in primis, e ai risultati della scuola. Come al solito, prima di metterci d’accordo su una definizione precisa e univoca della professionalità, se mai è possibile, ci siamo esercitati sugli strumenti per gratificarla. Nei contratti di lavoro si parlò di professionalità, per concludere che tra i suoi elementi costitutivi c’è l’anzianità. Si cercò di rimediare all’abolizione della progressione economica automatica con un compenso integrativo accessorio.
Ci si esercitò a trovare prima le accelerazioni di carriera, poi l’alternativa alle classi di stipendio, infine un concorso. Trovammo, da sindacalisti rigidi e ingenui, ai tempi di Berlinguer, attacchi, accuse e insulti alle assemblee sul “concorsone”. Non lo voleva nessuno: né i tanti mediocri che si confondevano nella massa, né quelli bravi che temevano i concorsi per i soliti raccomandati, né i “puri” che non volevano destinati a pochi i risparmi fatti sulla pelle di tutti. E del merito per anni non se n’è più parlato.
È tornato di moda ai tempi della “Buona Scuola”. Inopinatamente, il riconoscimento del merito e la valorizzazione della professionalità dei docenti sono stati affidati alle scuole, agli stessi insegnanti, anzi alla “comunità” scolastica, dirigente scolastico in primis. Con una dotazione di poche migliaia di euro per scuola. Non a tutti, non a pochi, secondo l’infelice estensore della circolare ministeriale dell’epoca. Quanto vale poco il merito! Pochi soldi affidati alle scuole: e si azzuffassero tra di loro dirigenti, comitati, docenti! Se era così semplice sciogliere i nodi legati al merito, l’avremmo fatto da un pezzo.
Sono passati, più o meno, cinquant’anni e siamo giunti all’epilogo finale. “il lavoro si retribuisce, non si premia” si sostiene. E così i soldi del bonus merito confluiscono nel fondo d’istituto “senza vincolo di destinazione”. Che in assenza di contratti e risorse vere è come la famosa coperta corta.
Noi, frattanto, siamo usciti dalla scuola. Usciti così come siamo entrati. Senza demerito. Che è un po’ senza merito. Servizio prestato senza demerito, come si leggeva nelle antiche note di qualifica. C’è stato, però, un momento esaltante e più vicino alla soluzione dell’annoso problema: con l’autonomia. Se si fosse compiuta. Se le scuole avessero avuto assegnati e in gestione tutti i soldi necessari per pagare non solo il fondo e questa specie di merito, ma anche gli stipendi. E se le risorse fossero arrivate alle scuole in base a risultati attesi, conseguiti e certificati. Sarebbe stata un’altra storia. Saremmo arrivati al riconoscimento del lavoro e del merito, sia pure per necessità. E avremmo scoperto che anche nella collegialità più compiuta i contributi individuali sono irripetibili. Perfino la chiamata diretta, con un premio d’ingaggio, avrebbe avuto un senso in un progetto comune e condiviso.
Sono i sogni o gli incubi di maturi ex-sessantottini convertiti al merito o, forse, l’unico sistema per salvare e rilanciare la scuola pubblica nel nostro Paese?