La scuola non è il capro espiatorio

Franco Buccino
(Repubblica ed. Napoli, 14 febbraio 2024)
La scuola torna alla ribalta per continui e recenti casi di aggressioni agli insegnanti da parte di studenti o genitori. Ancor più spesso è chiamata in causa per tutto o quasi tutto ciò di negativo che avviene fuori, come se avesse, o avesse avuto, chissà quale potere taumaturgico. Per affrontare qualunque problema bisognerebbe “cominciare dalla scuola”… Quasi mai ci interessiamo del “prodotto” e men che mai degli “strumenti di produzione”: percorsi didattici, laboratori, audiovisivi, visite istruttive, attività sportive. Neanche ci interessano i progressi degli studenti, i loro problemi, le crisi, le disabilità, la dispersione. Forse, all’origine c’è una visione distorta della realtà: pensare che la scuola sia fuori, sia altro rispetto alla società, e non parte integrante e immagine di essa.
Quotidianamente vediamo o leggiamo di baby gang, di episodi di bullismo, di violenze d’ogni genere con minori, protagonisti o vittime. Neanche più ci stupiamo. Eppure sappiamo che la maggioranza di essi frequentano la scuola. Proviamo a collegare i fenomeni. A interessarci di loro quando stanno a scuola e quando stanno fuori, quando le scuole stanno aperte e quando stanno chiuse. A coinvolgerli di più nelle scelte che riguardano il loro presente e il loro futuro. A smetterla di fare a scaricabarile tra famiglia, scuola e altre istituzioni.
La povertà educativa, che è il vero dramma del nostro tempo, non si risolve a scuola, non riguarda solo famiglie con problemi economici. Ma è trasversale a tutta la società, mancano gli “educatori”, che non sono automaticamente la mamma, il papà, i nonni, il parroco; neanche gli insegnanti, il tempo pieno, la frequenza di tutte le attività extracurricolari. Ma se, insieme, tutte queste persone prendono a cuore l’educazione del ragazzo, se ne assumono la responsabilità; se programmano le attività di loro competenza, ne curano lo svolgimento e ne verificano gli esiti. Se si arriva a momenti di personalizzazione. che pure il processo educativo richiede. Se anche lo Stato e gli Enti Locali fanno la loro parte, allora forse ci sarà una inversione di tendenza. Insomma istruzione affidata a “educatori” e impegno prioritario per lo Stato. E, invece, in che considerazione è tenuta l’abbiamo visto durante la pandemia: scuole tenute chiuse per lunghi periodi, nessun progetto finanziato per il recupero, diversamente da come si è fatto in tutti gli altri campi. E ci siamo meravigliati quando l’ineffabile Invalsi ci ha comunicato che abbiamo perso qualche posizione in classifica nella scuola primaria. Sembra poco grave, ma è come un tumore diventato invasivo in modo incontrollato, se arriva alle elementari.
Al governo fanno capo educazione e istruzione, ordine pubblico e giustizia, lavoro e politiche sociali. Ed è logico che al governo della repubblica ci si rivolga in primo luogo e ci si attenda risposte concrete sull’istruzione e sulle politiche giovanili. Del tutto insufficienti, inadeguate, perfino sbagliate e controproducenti. Dal governo attuale come dai precedenti. Ci vorrebbero, anziché iniziative estemporanee, annunciate con enfasi e poi lasciate a metà, abbandonate, ci vorrebbero piani impegnativi di riforme e di revisione coraggiosa della rete scolastica, ampliamento del tempo scuola e non anacronistiche divisioni sociali tra gli studenti. Ci vorrebbero intere “finanziarie” centrate sull’istruzione. E le cose non vanno meglio in famiglia. Permane un’aria di sufficienza nei confronti dei ragazzi, o, peggio, l’intima convinzione che li trattiamo bene, li viziamo anche troppo, rimpinzandoli di cibo ipercalorico, dotandoli di smartphone e tablet per le relazioni e le ricerche, di scarpe e abiti griffati. E invece li priviamo di ciò di cui hanno più bisogno: il nostro tempo, la nostra attenzione, la nostra guida, il nostro affetto, perfino.
In un tale contesto, all’interno e all’esterno della scuola, qui solo abbozzato, come si muovono i ragazzi, almeno la maggioranza, come reagiscono?
Con la ribellione o con l’apatia. Non so quale è più grave, quale è preferibile. Di sicuro sbagliamo a prendere di petto quelli che si ribellano o ad abbandonare alla loro apatia gli altri.

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