Franco Buccino
REPUBBLICA ed. Napoli, 17/4/2011
COL passare del tempo, sembra quasi che l’ odioso comportamento tenuto verso un loro compagno da alcuni ragazzi di una scuola di Posillipo, in gita in Puglia, voglia essere scolorito e derubricato. Un atto di violenza sessuale viene via via classificato come abuso, molestia, bullismo, tempesta ormonale. Il declassamento del reato è funzionale alla responsabilità, che in tal modo si alleggerisce, dei docenti, della preside e della scuola. Oltre a far tirare un sospiro di sollievo ai ragazzi coinvolti e alle loro famiglie. È il trionfo dell’ ipocrisia e dell’ arroganza di chi pensa che l’etica non comporti una responsabilità per i propri atti o le proprie omissioni. Ci sono voluti anni per definire in termini ampi la violenza, sottraendola a dettagli e azioni materiali, evitando particolari scabrosi e ulteriori umiliazioni per le vittime. Ci manca solo che si cerchi di accertare se il ragazzino che ha subito le violenze fosse accondiscendente. E allora, per favore, chiamiamo le cose con il nome che assegna la legge. Se i fatti accertati sono quelli resi noti, si tratta di violenza. Con l’ aggravante del gruppo. Il fatto che l’ abbiano commesso minori, tredicenni neanche imputabili, non cambia la natura del reato. Gli studenti in gita avevano i loro docenti accompagnatori, in numero adeguato. I docenti si organizzano in modo da garantire la sorveglianza. Sappiamo bene che nonostante la buona volontà, l’ abnegazione degli accompagnatori, possono accadere episodi incresciosi. L’ anno scorso alcune alunne di un liceo furono bloccate all’ estero in un grande magazzino perché avevano rubato delle collanine. Per non parlare degli schiamazzi, di pericolose fughe su cornicioni, di incidenti di varia natura. Insomma, gli occhi aperti e l’ attenzione costante non bastano mai. Eppure, se una decina di ragazzi di notte agiscono indisturbati, la vigilanza non è stata certo perfetta. Ma ciò che più sgomenta nel comportamento dei docenti, della scuola, e quindi soprattutto della preside, è l’ incredibile ritardo con cui è stato denunciato l’ accaduto. Si sono assunti in diversi una bella responsabilità. Di copertura, di distruzione di prove, di ricostruzione a tavolino dell’ accaduto. E stupisce che non siano ancora partiti provvedimenti nei confronti della dirigente scolastica. I benpensanti diranno: «Non spetta agli uomini di scuola non additare mostri, ma educare e formare insieme con le famiglie? E i ragazzi non sono sempre vittime, anche quelli che danno calci alle maestre, e quelli che sparano a qualcuno perché li ha sfidati guardandoli negli occhi?». Sì, tutto vero, ne siamo fermamente convinti. Siamo preoccupati per tutti gli alunni della Marechiaro, vittime e carnefici (ma chiarendo che è ben diverso essere vittima o carnefice), del loro equilibrio e della loro crescita. Ma senza strumentalizzazioni da parte di chi cerca di banalizzare da una parte e di giustificare dall’ altra comportamenti inaccettabili, e non è in grado di stigmatizzarli, né in pubblico né in privato con i propri ragazzi. La scuola non deve aver paura di educare. Educare significa anche non nascondere la verità, nuda e cruda, non sottovalutare comportamenti sbagliati, denunciare errori, non lasciarsi condizionare da atteggiamenti iperprotettivi. I docenti e la preside dovrebbero riflettere sul fatto che con il loro silenzio di giorni hanno compromesso l’ azione educativa, hanno disorientato gli alunni, oltre che le famiglie e l’ opinione pubblica. Ma la scuola ha tutti gli strumenti e le risorse per riprendere la sua missione educativa, prendendo le distanze dai nuovi profeti del permissivismo e soprattutto del disimpegno.