Franco Buccino
Mercoledì scorso è stato approvato il cosiddetto decreto Gelmini, e sabato è entrato in vigore. Alcuni, con un po’ di demagogia, non hanno saputo opporre di meglio che un referendum. Sotto l’ onda di una rabbia diffusa, in molti si sono schierati a favore: ma penso che nessuno si illuda che un referendum, a parte i tempi e i costi, possa minimamente modificare i provvedimenti sulla scuola. Molto meglio le manifestazioni, le proteste, il grande sciopero del 30 ottobre. Primo risultato concreto, il governo ha rimandato a tempi migliori per lui gli annunciati provvedimenti sull’ università. E speriamo che l’ obiettivo non sia quello di togliere vigore alla protesta sottraendole il nerbo degli studenti universitari. Tornando al referendum, bisogna stare attenti a non illudere i ragazzi, a fargli credere una cosa per un’ altra, loro che sono i protagonisti di questa fase; a non illudere precari, sissini e quant’ altri aspettano e sperano di lavorare nella scuola. Pur spogliato del suo obiettivo naturale, il referendum rimane uno strumento, un collante per l’ intero movimento. Che deve rimanere in piedi nel momento in cui il decreto e gli altri provvedimenti passano alla fase esecutiva. Insieme con il movimento, ricco, spontaneo, articolato e organizzato, deve esserci una proposta: una proposta di merito su quantità, modalità e tempi di attuazione perfino dei provvedimenti della Gelmini, sfidandola sul terreno degli obiettivi dichiarati, ma contraddetti dagli strumenti attuativi. Mi ha molto colpito la posizione del presidente Napolitano in queste settimane sulla scuola, su quello che è il suo richiamo al confronto piuttosto che al dialogo, sulla sua obiezione verso chi dice sempre no. Solo i miopi vedono nelle sue parole una posizione debolmente bipartisan, ma ben pochi hanno compreso che il Presidente vuole sottolineare la scarsa cultura di governo che su questo tema della scuola dimostrano sia quelli che sono all’ opposizione, indecisi a volte tra difesa della scuola pubblica e difesa dell’ esistente, sia – quel che è peggio – i nostri governanti attuali, decisi a ridurre la spesa, e non gli sprechi, con tagli indiscriminati. Un confronto serio e costruttivo, sono sicuro, porterebbe a una drastica riduzione dei tagli previsti da Gelmini e Tremonti, ma a una diversa distribuzione degli organici, a livello nazionale, a livello regionale, provinciale e territoriale, eliminando sacche di privilegio o improduttive, in molte realtà dando quel che serve ma in altrettante togliendo abusi; porterebbe a non ridurre di molto il numero delle scuole, ma a una riprogrammazione delle istituzioni scolastiche sul territorio, creandone di nuove in diverse località, eliminando incredibili concentrazioni in altri posti, razionalizzando, per esempio, gli indirizzi nelle superiori, che spesso spuntano come i funghi; porterebbe a una diversa considerazione del fenomeno del precariato nella scuola e a concordare coraggiose soluzioni di alleggerimento di ingolfamenti di precari in alcune zone a fronte di graduatorie di supplenti esaurite in altre. E così via. Spinge nella direzione del confronto il monito del Capo dello Stato, ma anche la nostra esperienza di scuole napoletane, campane, meridionali. Alle nostre ataviche deficienze strutturali, all’ arretratezza culturale di ancora ampi strati della popolazione, alla frequente inadeguatezza delle amministrazioni locali, alla piaga della dispersione scolastica – ne ha parlato così bene Marco Rossi-Doria domenica – si è aggiunta in tempi più recenti una politica per l’ istruzione che ha cominciato a tagliare e razionalizzare senza più badare alle esigenze delle scuole povere, che sono divenute più povere. Tutti insieme, a livello nazionale, abbiamo combattuto provvedimenti iniqui, ma sempre più spesso abbiamo pagato noi meridionali. Gli ultimi tagli del governo Prodi hanno riguardato la Campania per oltre il trenta per cento del totale. Si parla di precari della scuola che presto non lavoreranno nelle scuole italiane, ma in Campania oltre cinquemila supplenti, dopo anni di incarico annuale, stanno già con le mani in mano. è facile prevedere che anche la rigorosa applicazione dei provvedimenti della Gelmini, al di fuori di ogni confronto, colpirebbero noi più degli altri, a cominciare dal maestro unico, che altrove verrà aggirato dal tempo pieno, da integrazioni anche con il supporto degli enti locali, da noi sarà quel che rimane del modulo, cioè un maestro che al massimo si vedrà accompagnare dall’ insegnante di religione. Anche il dimensionamento della rete scolastica ci vede al primo posto nelle proiezioni: scompariranno scuole, senza alternative. Sarebbe una pacchia per progetti contro la dispersione scolastica o per progetti di scuola nelle carceri. E allora? Allora noi dobbiamo spingere per il confronto, spingere in tale direzione sindacati e forze politiche. Questa oggi è la scelta più rivoluzionaria: quella per la sopravvivenza di un sistema pubblico dell’ istruzione nei nostri territori. Per quanto riguarda la scuola del sud la soluzione passa per un’ assunzione dei suoi problemi a livello nazionale: una nuova questione meridionale per l’ intera comunità nazionale. E non solo la scuola. Le iniziative sulla scuola di cui si sente parlare in questi giorni sono opportune se vanno in questa direzione. Altrimenti non c’ è soluzione federalista o stati generali che tengano. Neppure se si celebrano a Casal di Principe.