Franco Buccino
Il documento “La buona scuola” è stato pubblicato il 3 settembre 2014. In questi giorni, ad aprile inoltrato, è cominciata la discussione in Parlamento del ddl di attuazione del progetto presentato dal governo. A tempo ampiamente scaduto, se si pensa di attuarne i contenuti dal 1° settembre prossimo. Ma chi ci pensa a rispettare la data? Non l’Amministrazione scolastica, già tutta presa dalle uniche operazioni che giustificano la sua esistenza: trasferimenti, assegnazioni provvisorie, utilizzazioni, ricorsi, controricorsi e rettifiche; poi le immissioni in ruolo, modeste come negli anni precedenti (in assenza della legge che istituisce l’organico funzionale); infine, incarichi e supplenze. E così i precari dopo la sbornia di annunci tornano alla triste realtà. Non ci pensa neppure il governo. Renzi in persona, esauritasi la carica mediatica degli annunci sulla buona scuola, ha affermato che da settembre prossimo si passa alla “buona università, e in anteprima ha lanciato le relative parole d’ordine: meno burocrazia, più ricerca, maggiore attenzione alle funzioni dei rettori, e – asso nella manica – un jobs act universitario per stabilizzare i precari. Verrebbe da dire, con tutto il rispetto, che ci vuole una bella faccia tosta.
In tutti questi mesi una breve consultazione e poi tanti discorsi, tante discussioni, tanti interventi, tanti temi: proposti, quasi sempre in termini un po’ strumentali, da tutti gli uomini e le donne del Presidente. Che hanno trovato compiacenti casse di risonanze in organi d’informazione e riviste specializzate. L’argomento principe è il numero e le modalità di stabilizzazione dei precari. Con cinismo e indifferenza si passa da centotrentamila, a cento, novanta, quaranta, fino ai soliti ventisettemila; per non parlare delle sedi eventualmente loro assegnate: si passa da piccoli spostamenti in regione a esodi biblici da un capo all’altro del paese. E poi, graduatorie ad esaurimento svuotate, anzi no, ma di sicuro abolite. Graduatorie d’istituto e idonei nel concorso, dentro e fuori in un’altalena continua. Paritarie: scarso rilievo ai 400 euro di detrazione fiscale; molta enfasi, invece, alla rassicurazione che i loro docenti non passeranno in massa nei ruoli dello stato (?). (Nessuno spiega come si fa a passare nei ruoli della scuola statale con i servizi prestati nella scuola privata). E poi il merito, questo sconosciuto. Un anno di prova altamente formativo: peccato che arrivi con molto ritardo, perché i formandi hanno già almeno una decina di anni di servizio al loro attivo. Nessun coraggio a riconoscere la formazione già fatta, in particolare quella di quanti hanno frequentato, dopo la selezione, una scuola di specializzazione interuniversitaria per due anni e oltre, con relativo esame finale. La loro è un’abilitazione uguale a quella che hanno conseguito i frequentanti di un modesto corso durato poche settimane, avendo come unico requisito di accesso 360 giorni di servizio! E pensare che questa modalità di reclutamento, il corso-concorso, è quella che è stata scelta per i futuri dirigenti scolastici.
I capi d’istituto, il grande tema delle ultime settimane. Sono passati da potenti dirigenti che stilano il piano dell’offerta formativa, definiscono la consistenza dell’organico funzionale, chiamano direttamente i docenti dagli albi territoriali, valutano l’anno di prova degli insegnanti, a semplici presidi (cioè che presiedono il collegio), a mini dirigenti che dopo un mandato possono tornare a fare gli insegnanti. Gli stessi che denunciavano la deriva autoritaria, ora cercano di conservare ai capi d’istituto ruolo e funzioni per evitare che le scuole diventino ingovernabili. Verrebbe da chiedersi chi è che vuole veramente l’autonomia scolastica. L’ Amministrazione scolastica non vuole cedere il potere, non ha fiducia nelle competenze delle scuole, scarica su di esse in nome della loro autonomia i problemi che non riesce a risolvere. Ma viene qualche dubbio pure sulle precise volontà delle diverse componenti della scuola. L’autonomia, e relativo organico funzionale, può immaginarsi solo per scuole di dimensioni molto più ampie delle attuali. Chi è d’accordo? L’autonomia di poter scegliere alcuni insegnamenti specifici, previsti dal piano dell’offerta formativa, significa che non si possono generalizzare trasferimenti, graduatorie interne, forse neppure stipendi determinati solo dall’anzianità. Significa che qualcuno, dopo il lavoro istruttorio di una commissione, si assume la responsabilità di una chiamata diretta. O no? Significa pure che una scuola, con il suo organico funzionale, oltre a crearsi figure di staff, copre da sola, di norma, le assenze del personale. Soprattutto, autonomia significa dar conto del proprio operato, dei risultati ottenuti, la scuola e il suo dirigente. Solo in questa logica figure, ruoli e funzioni si sottraggono all’inveterato verticismo e autoritarismo, ai meri criteri economicistici e amministrativi, alla vuota e autoreferenziale meritocrazia, e si consegnano alla scuola democratica, come la definisce e la vuole la nostra Costituzione. Perché, in ogni caso, il problema non è la scuola autonoma o il suo dirigente, ma, se mai, gli organi della scuola, in particolare il consiglio dell’istituzione scolastica, il suo livello di rappresentatività e competenze.
Mentre anche noi cadiamo nel tranello delle divagazioni, in Parlamento è il momento degli emendamenti: si chiede tutto e il contrario di tutto. Del resto tutto ciò è determinato anche dal fatto che l’intero ddl manca di organicità e di una visione complessiva della scuola che ne giustifichi il pomposo titolo. Anzi, a dir la verità, la buona scuola che c’è, la parte buona della scuola, memore di pessime non lontane riforme, si augura che non si facciano ulteriori danni.