Franco Buccino
Siamo stati, con la mia famiglia, ad abitare in località Lago, a metà strada, sulla litoranea, tra Paestum e Salerno, dal ‘50 al ’72. In un impianto idrovoro del Consorzio di Bonifica Destra Sele. Due canali di raccolta arrivavano fin sotto l’edificio. Poi le pompe idrovore aspiravano l’acqua e la scaricavano sul retro, in una grande vasca, a livello più elevato, di modo che essa defluiva fino alla spiaggia e al mare. La bonifica della piana del Sele a partire dalla fine degli anni Trenta ha sottratto alla palude migliaia di ettari di terreno e li ha consegnati all’agricoltura!
Quasi tutto l’edificio era occupato dall’ impianto vero e proprio, che aveva come soffitto un lastrico convesso, sul quale potevamo accedere dallo spazio destinato alla nostra abitazione. All’altro estremo dell’impianto, in uno spazio più piccolo, abitava una nostra zia con la madre. Il marito era morto in un incidente proprio nel ’50. Era il responsabile dell’impianto da una quindicina di anni. Zio Vito era un fantino abbastanza rinomato, amante delle moto, ne aveva una col sidecar. Con la quale una mattina morì finendo in uno dei due canali. E mio padre era venuto a sostituirlo.
Le zie ci raccontavano tante storie, spesso tragiche, accadute in quella zona. Ma quella che ci affascinava e ci impauriva di più era lo sbarco degli Alleati del ’43. Proprio in quei posti: la spiaggia, le dune di sabbia con i gigli di mare e quelle spine che pungevano delicatamente, e infatti chiamavamo “vasa pier”, cioè baciapiedi, e poi la macchia mediterranea, man mano soppiantata dalla pineta, allora la nostra Forestale. Proprio i posti delle nostre scorribande, della nostra fantasia, dei nostri giochi! E le zie ci dicevano dei carri armati e altri blindati, ricoperti di frasche, tra le cannucce. Soprattutto delle postazioni di mitragliatrici che i Tedeschi piazzarono per un po’ sul nostro terrazzo convesso.
Lo sbarco certo non l’avevamo visto, ma l’abbiamo rivissuto tante volte, ha influenzato i nostri giochi, ha acceso la nostra fantasia. Ricordo ancora la paura ad andare la sera sul terrazzo, il terrore di essere colpito da qualche proiettile proveniente dalla spiaggia o dal mare.
Poi nel giro di qualche anno, crescendo, le immagini si affievolirono: il tronco d’albero che il mare restituiva e che vedevamo da lontano, non ci faceva più pensare allo sbarco. E invece, verso la metà degli anni cinquanta, un pomeriggio si presentarono all’impianto dei signori: parlarono un bel po’ con nostro padre e poi scaricarono vari contenitori e degli strumenti strani. Li poggiarono sotto la scala che portava alla nostra abitazione. Con i miei fratelli, fu più forte di noi, andammo a vedere di che si trattasse. Ci colpivano in particolare degli aggeggi simili ad aspirapolvere che allora vedevamo nei film americani.
In realtà erano dei cercamine. Dal giorno dopo perlustrarono con quegli strumenti tutta la spiaggia e la macchia, che cedeva sempre più spazio alla pineta. Non è che potessimo avvicinarci, ma a mezzogiorno preciso, come il cannone del Gianicolo, facevano brillare tutte le mine che raccoglievano in grossa buca nella sabbia. All’inizio i cani abbaiavano e le galline si fermavano alzando il collo.
Capimmo allora, con i miei fratelli, com’erano importanti quei manifesti che ci avvisavano dei pericoli che correvamo, soprattutto noi bambini, liberi in spazi immensi.
Sono i nostri primi ricordi di racconti e di episodi legati a quello sbarco di ottanta anni fa. Poi abbiamo studiato la storia, abbiamo approfondito e interpretato i fatti, perfino visti i documenti. Ma la potenza dell’infanzia con i suoi ricordi e le sue fantasie ogni tanto fa capolino.