Dispersione a Sud

Franco Buccino

I titoli di Repubblica e di altri giornali nei giorni scorsi: “Sud, fuga dalla scuola”, “Mezzogiorno, omissione di soccorso”. Uno zoom sulla scuola del Sud alla vigilia dell’autonomia differenziata, edizione Calderoli.

Nei lunghi anni che abbiamo trascorso nella scuola, nelle scuole del Sud, l’argomento più dibattuto, il problema più evidenziato, è stato sempre la dispersione scolastica. I cui effetti nefasti abbiamo visto e subito nelle scuole, nei quartieri, al centro e nelle periferie. A Napoli, in provincia, in regione.

Non sono mancati studi, analisi approfondite, proposte, esperienze, esperimenti. ma progetti, strategie, risorse, non sono serviti a modificare la situazione. Né in tempi prosperi per il paese, né in anni di crisi; né ai tempi della pandemia, sia prima che dopo.

Negli anni ’70, a dieci anni dall’introduzione della scuola media obbligatoria, per combattere abbandono e dispersione, si cominciò con studio sussidiario e libere attività complementari (le LAC). Non funzionò: insegnanti diversi da quelli del mattino, frequenze sporadiche, scuole semideserte e semivuote in cui scorazzavano studenti spesso problematici.

Poi cominciarono a diffondersi i progetti. Il più delle volte non hanno funzionato: si sono sovrapposti alla scuola ordinaria, hanno visto insegnanti diversi e separati da quelli curricolari. Alcuni progetti che funzionavano meglio, ricordo, proprio a Napoli, “Chance”, “Fantàsia”, costavano troppo per farli durare e diffondere, in tempi di tagli all’istruzione. Oggettivamente, erano poco replicabili, però lasciarono intravedere una soluzione: non aumento dello studio, delle “materie”, ma più sport, conoscenza del territorio, “esperienze” lavorative.

In tempi recenti l’analisi si è fatta più precisa: si parla di “povertà educativa”, che non dipende solo da problemi economici, ma è trasversale a tutta la popolazione e, abbinata spesso ad altre situazioni sociali, locali o familiari, continua a provocare abbandoni, dispersione scolastica.

Secondo me, pensare di affrontare la povertà educativa con progetti a scuola, più o meno elaborati, è del tutto velleitario. La scuola, al più, può provare a rimediare ai danni che essa stessa provoca per una quota significativa di alunni e studenti. Per esempio non offrendo la fotocopia precisa del suo modello organizzativo e didattico a quanti ritornano dopo averla abbandonata per le sue rigidità.                                                                           

Ma le cause profonde della povertà educativa sono sociali, e solo la società può affrontarle.

Non sono le aule e nemmeno le palestre delle scuole quelle di cui sentiamo più la mancanza,  ci vogliono sale cinematografiche e teatri, parchi e verde pubblico, palestre e campi sportivi, opportunità per tutti i ragazzi di praticare lo sport. Ci vogliono iniziative pubbliche nelle quali i ragazzi siano i benvenuti, perfino convegni scientifici ed economici. Ci  vuole un ricordo solenne degli anniversari della nostra repubblica con la partecipazione attiva dei ragazzi, non banali giorni di vacanza a scuola. E soprattutto ci vuole lavoro per i loro genitori, qualità della vita più dignitosa nel loro quartiere, prospettive per il loro futuro.

Solo così potremo ridurre le percentuali della dispersione, e anche migliorare la qualità della preparazione culturale e della formazione dei nostri ragazzi. Quello che in qualche misura è mancato perfino a noi che pure la scuola l’abbiamo frequentata e i titoli di studio li abbiamo conseguiti!  

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